Breve riflessione: la geopolitica ha fatto i conti con Liang Qiao?
Le analisi sulle svolte geopolitiche e geoeconomiche che stiamo vivendo stanno tenendo conto del pensiero dell’analista cinese? Non sembra

È fuori dubbio che noi contemporanei stiamo vivendo una svolta geopolitica epocale. Illustri e bravi analisti specializzati fanno bene il loro lavoro(*) e, in estrema sintesi, quello che ci prospettano come risultato delle turbolenze, partite da lontano e accelerate prima dal Covid e poi dalla guerra Ucraina, è un mondo multipolare in cui i principali attori sono in perenne conflitto culturale. È questa la caratteristica che risalta: non più democrazia verso autocrazia, e tanto meno contrapposizioni religiose o ideologiche, ma ceppi di cultura comune che si raggruppano, secondo convenienza in nome di [basilari, pochi, mutevoli] valori condivisi, e si scontrano. Accanto ai poli maggiori i minori si destreggiano, nelle arti dell’equilibrio multilaterale e del rimbalzo regionale tra una parte e l’altra, in funzione di specifici tornaconto.
In queste analisi, come ripeto ottime dal lato della storicità e delle logicità, una questione mi lascia perplesso: il ruolo dell’Africa e del Medio-Oriente sono sempre trascurati. Non sono uno analista di geopolitica, e quindi esprimo la mia impressione sottovoce, ma dal punto di vista almeno potenziale penso che questi parti del globo (soprattutto alcune zone dell’Africa, dal punto di vista socio-culturale) abbiano qualcosa da dire in tema di equilibri nel medio-periodo tanto più se, come sembra, sarà in questi luoghi che gli effetti più nefasti delle tensioni internazionali di breve periodo si scaricheranno.
Anche dal lato della geoeconomia il cambiamento è epocale. Alfieri, come Parag Khanna, dell’inevitabilità della rimozione di tutti i blocchi sistemici (intra sotto-sistemi e tra sotto-sistemi) in cui si dipana la globalizzazione stanno per forza di cose ravvedendosi. La questione in questo caso è prevedere quale forma la globalizzazione assumerà alla fine della fiera (se la fiera si stabilizzerà, almeno per un po’). Mi sembra, ma anche questo non è ‘my cup of tea’, che le previsioni che introducono un’ulteriore complessità sistemica dimensionale, a livelli, sia la più condivisibile. Ai tradizionali sotto-sistemi in cui la globalizzazione è, a livello didattico, suddivisa molto probabilmente si aggiungeranno dei livelli definiti da come le informazioni/commodity/servizi possono transitare dentro e tra i poli.
A dire il vero questo, come qualcuno fa notare, si è iniziato a vedere da un po’ di anni e, come dice qualcun altro, è sempre esistito solo che la molla, costituita dalle barriere tra i livelli e tra i sotto-sistemi, adesso è entrata in una nuova fase di contrazione.
Ci sono però delle nuove variabili che storicamente sono mai state presenti, che potrebbero configurare in maniera totalmente nuova il quadro generale, e di cui mi sembra non si tenga abbastanza conto. Per meglio dire mi sembra non si abbiano molto presenti i due motivi, strettamente connessi, che Ling Qiao, in ‘L’arco dell’impero’ nel 2016, portò come fattori di progressiva decadenza dell’impero americano e di modellatura del nuovo ordine geopolitico e geoeconomico mondiale, e cioè la tecnologia e la finanza. Quattro esempi, a livello tattico, possono aiutare a capire l’importanza del pensiero dell’analista cinese, elementi a mio avviso di discreta importanza a cui attualmente viene prestata scarsa o pressoché nulla attenzione.
Il primo, i big-one digitali (indicati con FAAMG o altri acronimi). I big-one ci sono sempre stati (basta pensare alla Compagnia Britannica delle Indie Orientali e alla sua pervasività nella globalizzazione del tempo oppure alle repubbliche delle banane sudmericane degli anni ‘960/70) però le caratteristiche attuali sono del tutto nuove. I nuovi big-one, oltre che per dimensione economica, attualmente assumono rilievo se non di polo geopolitico certamente di sotto-sistema geo-economico a se stante con cui fare i conti. Essi si possono configurare come i livelli interagenti che filtrano tutta internet, e cioè tutta l’informazione: questo situazione non si è mai presentata storicamente prima. Il filtraggio ha come oggetto le informazioni con origine economica ma anche e soprattutto quelle di carattere sociale.
Il processo di multi-polarizzazione che sta assoggettando la commodity ‘dati’ però presenta sostanziali differenze. Se i poli e le componenti sotto-sistemiche delle autocrazie si possono avvalere della ‘digital sovereign’, e quindi di un relativo controllo di natura imperativa, quelli occidentali (ovvero di cultura occidentale, ovvero con valori para-occidentali come Corea del Sud e Giappone) il controllo sui flussi cyber lo possono esercitare ufficialmente e formalmente attraverso framework indiretti. Essi devono tenere in considerazione i molti attriti sociali che nascono dalle esigenze dei diversi stakeholder e, in tutti i casi, sempre negoziando con i big-one: si è sicuri che gli interessi siano sempre tra loro coincidenti?
E se questo non si verifica? E se il big-one ha un interesse terzo rispetto alle culture dominanti del polo di appartenenza? A me sembra che fino a ora, pensando alla privacy per esempio, le coincidenze di interesse culturale tra Facebook/Meta e i governi occidentali, sia stata molto debole. Con altro esempio, Apple non ci ha pensato due volte a permettere l’accesso governativo cinese ai propri server pur di non perdere il mercato: non mi sembra una posizione allineata con le policy del ipotetico polo di appartenenza.
La Compagnia delle Indie e le multinazionali della frutta erano, ai rispettivi tempi, il braccio economico di Regno Unito e USA : godevano di ampia autonomia ma, bene o male, in ultima istanza rispondevano socialmente e culturalmente a qualcuno che gli consentiva di gestire al meglio le infrastrutture fisiche e le finanze necessarie alle loro attività e alle loro supply-chain, quindi alla loro pervasività economica; per i big-one digitali la fisicità non esiste (l’hardware necessario per il digitale non fa testo).
È ragionevole pertanto pensare a una multi-polarità classificata culturalmente in cui si inserisce un terzo riferimento definitorio, che potremmo chiamare post-capitalistico con connotazione a-culturale, costituito da entità non statuali autonome e che hanno come paradigma esclusivamente i mercati in cui sono quotati, con tutto ciò che ne deriva: si è introdotto a proposito, con ragione, il termine di ‘tecno-feudalesimo’ (**). Apparentemente esse sono sotto-sistemi (geo) economici: di fatto sono poli (geo) politici perché politico è il potere di filtro su tutta l’informazione, come le macro-vicende di Trump bannato e Elon Musk/Twitter insegnano.
Il secondo, l’efficienza degli strumenti di guerra economica. Vivo in un paese dove, a seconda dei momenti, tutti sono strateghi di calcio, di pandemie, di guerra e, adesso, di efficacia delle sanzioni: anche per gli autori dell’ultima delle testate (o delle newsletter, o degli account Linkedin) è difficile astenersi dal pubblicare (o dal postare) l’ennesima palese stronzata su come le sanzioni economiche siano un poderoso strumento di guerra economica, con le conseguenti previsioni che, al 99%, vengono altrettanto palesemente disattese nei tempi e nei risultati. Gli embarghi in generale sono da sempre armi di guerra economica: Iran, Cuba, Serbia, rappresentano alcuni degli esempi più recenti e altri se ne trovano facilmente nella letteratura storica. Quello che è radicalmente cambiato con l’esperienza ucraina, e che sta mescolando le carte, è la tattica di impiego dell’arma.
L’evoluzione della digitalizzazione permette, per la prima volta nella storia, un impiego pressoché in tempo reale di importanti armi economiche. Con uno switch-off si possono chiudere pressoché istantaneamente i canali di pagamento, quelli sociali e spesso anche quelli fisici isolando così un paese. Prima non era mai successo: i tempi tattici di efficacia, e quindi efficienza, degli embarghi erano sempre stati di medio periodo. Quindi ritorniamo al primo punto: chi ha la sovranità digitale anche in questo caso può pensare di ovviare in parte, chi non la possiede no. La Russia negli ultimi tre anni ha fatto i salti mortali per arrivarci, e ci è riuscita molto parzialmente; la Cina, invece, si può dire abbia la massima espressione di sovranità digitale oggi pensabile, soprattutto in termini di efficienza sistemica.
Avere sovranità digitale vuol dire anche avere un proprio cyberspace interagente in via autonoma con il resto del mondo e riuscire, quindi, a contrastare e compensare eventuali tattiche nemiche, come la Russia attualmente sta in parte ben riuscendo se si osserva, per esempio, la quotazione del Rublo dall’inizio della guerra. I poli che si riconoscono nelle culture ‘occidentali’ non possiedono queste armi direttamente perché esse sono di fatto amministrate (non solo tecnicamente) dai sistemi economici [poli] post-capitalistici: anche in questo caso siamo sicuri che, nelle prossime configurazioni globali, gli interessi saranno sempre [formalmente] coincidenti come è più o meno avvenuto nel caso della vicenda Russia/Ucraina?
Il terzo. Già adesso le falle, anche nelle sovranità digitali più pervasive, intenzionali e non-intenzionali non mancano. Anzitutto le piattaforme digitali, anche quelle cinesi, per mantenere il valore di mercato non possono fare affidamento solo su quello interno, per quanto numeroso esso sia: questo per forza apre corridoi franchi, nicchie, di flussi informativi non controllabili. Poi si sta andando verso il metaverso: questo (a meno di un cataclisma sistemico) non è una previsione è un’affermazione. Le previsioni e gli scenari non riguardano il ‘se’ ma nel breve-medio il ‘come’ e il ‘chi’, nel medio il ‘quando’ (e nel ‘lungo’ saremo tutti morti, come è uso dire). La grande-strategia di arrivare al metaverso è ormai fuori discussione, considerando chi e come sta investendo nei processi tecnologici che lo compongono: anche i teatri si stanno delineando e meno chiari rimangono, per ora e per forza di cose, i perimetri operazionali, tattici e tecnici.
Il metaverso, indifferentemente B2B e B2C, comporta e permette interazioni tra gli utenti, e tra utenti e servizi, molto più complesse e ricche di quelle attualmente presenti nelle piattaforme con cui il Web 2.0 consente la reciprocità. Se è corretto affermare che attualmente reale e digitale sono compenetrati nella quotidianità il reale, oggi e compresi gli umani, è ancora analogico. La trasformazione avviene ancora attraverso dei ‘convertitori’, le piattaforme del Web, di espressione mediata della fisicità analogica. Nel metaverso i ‘trasformatori’ fanno un passo avanti: permettono di dare anche a parte del ‘materiale’ una fisicità digitale che oggi non esiste e che esso non possiede.
Guardare la serie televisiva UpLoad trasmessa su Prime Video, di intrattenimento, semplice nella trama ma divertente e, soprattutto, geniale nelle soluzioni immaginate, aiuta a capire la differenza. Luciano Floridi (*****) dice che il digitale ha potere di scissione rispetto la realtà: via via che esso procede la realtà fisica viene rimodulata ‘ontologicamente e epistemolagicamente’ e si ricompone in forme nuove e precedentemente sconosciute. Il metaverso molto probabilmente sarà causa di un nuovo ‘copia e incolla’ di cui oggi non si conoscono i risultati.
Quindi dall’attuale compenetrazione reale e digitale nel medio periodo di arriverà alla ‘continuazione’ del reale nel digitale e viceversa, un continuum reciproco che per avere e creare valore socio-economico non può fare a meno delle interazioni reciproche tra persone, organizzazioni e servizi e in cui le frontiere fisiche perdono del tutto il già misero significato che oggi hanno. Il ‘copia e incolla’ avrà effetto sicuramente anche su geopolitica e geoeconomia e, secondo me, non tenerne conto è essere ciechi nel medio periodo. Si ritorna pertanto anche in questo caso al primo due punti: la Cina sta sviluppando il suo metaverso, aperto ma controllato, i big-one si sono auto-delegati a svilupparlo per la cultura occidentale. Il medesimo discorso vale, in termini generali, per i processi di AI.
Infine il quarto fattore, le CBDC. Qua il discorso è un po’ diverso: i big-one c’entrano poco, se escludiamo quelli che gestiranno i processi dal lato infrastrutturale (hardware e networking) che, comunque, bene o male si possono blindare. Sull’onda lunga del processo di de-dolarizzazione si sta assistendo, per merito della tecnologia (e nello specifico anche del protocollo blockchain), alla genesi del fenomeno di decentralizzazione delle valute con cui effettuare i pagamenti rispetto a quella che possiede, dagli anni ‘940 (Breton Woods), il monopolio mondiale nella regolazione dei pagamenti (e quindi del credito). Se si considerano tutte le politiche di de-dolarizzazione, inizializzate sopratutto da Cina e Russia e a cui molti paesi si sono associati, messe in atto negli ultimi dieci anni, l’introduzione delle CBDC da, al processo nel suo insieme, un formidabile ulteriore impulso. Non per niente la Cina è paese leader nell’operatività attraverso lo Yuan digitale ma, soprattutto, negli accordi di regolazione trans-nazionali regionali attraverso valute digitali create allo scopo, nessuna delle quali vede il dollaro americano come valuta di riferimento.
Le CBDC saranno nel medio e medio-lungo periodo un formidabile strumento operazionale e tattico di guerra economica in quanto consentiranno di diminuire la potenza dello strumento sanzioni, consentendone l’aggiramento sia regionale che sovra-regionale. Con la decentralizzazione degli strumenti di pagamento insita nelle CBDC entità centralizzate, come la belga SWIFT, perdono la loro utilità pratica; i circuiti delle card (per il settore carte di debito) dovranno rimodellarsi se vogliono sopravvivere, venendo meno anche per essi l’utilità pratica. Questa è la base della De-Fi statuale accanto alla quale, in maniera molto più massiccia, si sta sviluppando la De-Fi privata: la prima punta a non avere il dollaro USA come punto di riferimento, la seconda non ha solo le valute fiat come riferimento ma, anche e sopratutto, le valute private. Nelle configurazioni geopolitiche che leggo questa tematica come modellatore di scenari non la trovo come fattore emergente e, secondo me, è un errore non considerarla.
Come analista non penso che una previsione, uno scenario, che storicamente si verifica sia fattore prodromico di infallibilità futura dell’autore e neppure penso il contrario. Ritengo però che un’analisi che prende corpo nella realtà sia, almeno, un buon fattore di credito rispetto chi l’ha elaborata: sono dell’avviso che per gli analisti di geopolitica facciano male a ignorare l’attuale pensiero di Liang Qiao.
Con tutti i suoi limiti, primo tra tutti la sua ossessione per il dollaro americano, come ha ben sottolineato Fabio Mini nella prefazione all’edizione italiana di ‘L’arco dell’impero’, e, secondo, una certa confusione concettuale che emerge nel libro tra guerra finanziaria e guerra economica, Liang Qiao è un analista che fino a ora non ha sbagliato un colpo. Ha previsto con più di un lustro di anticipo gli eventi tattici al cui apice si è verificato il 9/11; con più di dieci anni la guerra dell’informazione; lo scenario che oggi si sta verificando in Ucraina è uguale a quello da lui descritto in occasione dell’invasione della Crimea nel 2014.
Forse il credito gli è dovuto.
(*) Per tutti:
(**)
(***)
(****)
(*****)